Progetto Manhattan
. Le ragazze dell'atomica

Vittorio Zucconi



La ragazza entrò nella "casa della bomba" reggendo in mano le sue scarpe bianche coi tacchi che non voleva distruggere nel fango del Tennessee. Portata in braccio da un poliziotto militare mosso a pietà dalla disperazione di una donna che aveva speso tutte le proprie fortune in quel paio di scarpe eleganti, Celia Klemski entrò nella baracca numero 5 di Oak Ridge ancora fresca dell’odore di assi e segatura, senza sapere, senza immaginare che lei, insieme con altre sessantamila donne, sarebbe diventata la madre del più infernale ordigno di morte che mai l’umanità avesse concepito e partorito prima: l’atomica.

Per sette decenni la storia del “Progetto Manhattan”, così chiamato perché il primo ufficio dove fu organizzato e pianificato era a Manhattan, la saga degli scienziati catapultati da tutto il mondo e segregati per due anni tra le colline degli Appalachi, avrebbe ignorato lei e le decine di migliaia di donne, quasi tutte ragazze, senza le quali “Little Boy”, la bomba di Hiroshima, e “Fat Man”, il distruttore di Nagasaki, non sarebbero mai nati.

È stato scritto qualcosa, poco, sulle scienziate reclutate accanto alle celebrità come Oppenheimer, Fermi, Lawrence, Teller, Szilárd o come la spia sovietica Fuchs, a concepire le bombe. Ma pochissimo spazio e tempo, fino alla ricerca di Denise Kiernan su The Girls of Atomic City (Touchstone) e uscita in America nel 2014, erano stati dedicati al fiume di donne senza la quali la Bomba sarebbe rimasta quell’idea sulla carta suggerita da Albert Einstein a Roosevelt, e dimostrata possibile da Enrico Fermi a Chicago.

Come Napoleone sapeva che ogni esercito marcia sullo stomaco, così Roosevelt, e il despota assoluto alla guida del Progetto Manhattan, il generale Leslie Groves, avrebbero scoperto in fretta che per arrivare alla mattina del 6 agosto 1945 su Hiroshima, il “gadget”, come era chiamato in codice, avrebbe dovuto camminare sulle gambe delle donne.

Fu la necessità di creare in poche settimane un mostro logistico e amministrativo di trecentomila persone, sparso in diciannove strutture e impianti dalla costa del Pacifico nel Nord Ovest agli Appalachi nell’Est, che lanciò l’operazione scarpetta bianca, il reclutamento, quasi una leva militare, di centomila donne. Erano quasi tutte ragazze, a volte liceali o contadine, sempre single, essendo le più adulte già impegnate nei lavori civili al posto dei figli e dei mariti inviati al fronte o madri con bambini anco- ra piccoli. I reclutatori dell’Esercito e dell’Fbi le preferivano di paese o di campagna, magari un po’ ruspanti ma meno schizzinose, più malleabili, più rispettose dell’autorità rispetto alle loro coetanee di città.

Lettere misteriose di convocazione arrivavano nelle cassette postali di fattorie del Midwest, nelle colline della West Virigina, negli acquitrini della Carolina. «Si presenti il tal giorno alla tale ora....».

Uomini bruschi e dalla bocca cucita offrivano un lavoro per il governo, ben pagato, meglio degli avari salari dei genitori o della madre. Dove? Chiedevano agitate le ragazze. Lo vedrà. Per fare che cosa? Non si può dire. Per quanto tempo? Non lo sappiamo. E, attenzione, miss: quando sarà dove sarà non potrà parlarne con nessuno, neppure con le colleghe e i colleghi, non potrà scrivere a casa senza prima aver passato il vaglio dell’ufficio censura, e non potrà allontanarsi dal campo grande quaranta chilometri quadrati se non in gruppi sorvegliati. Firmi qui. La ragazze firmavano, quasi tutte, fra l’eccitazione, la paura, la curiosità, senza notare la riga dove era indicato che ogni violazione delle regole avrebbe potuto comportare il carcere per spionaggio e alto tradimento. Pena: anni dieci senza libertà provvisoria.

Si mossero a legioni. Partirono più ragazze per le destinazioni del Progetto Manhattan di quanti uomini esattamente settant’anni fa sarebbero sbarcati in Normandia. La maggior parte di loro, come Celia dalla bianche scarpe, come Kattie, la figlia di un pastore luterano, come Colleen che si sarebbe messa nei guai per amore, sarebbero state portate a Oak Ridge, accanto al paesino di Clinton, nel Tennessee, per lavorare in quella che era definita soltanto come “The Works”, la fabbrica.

Viaggiavano per ore, spesso per giorni, in convogli lentissimi e riservati alle femmine. Si fermavano spesso per lasciar passare i treni dei loro coetanei maschi che andavano in direzione opposta, diretti ai porti dove si sarebbero imbarcati per i mattatoi d’Europa e d’Asia. «Quando i vagoni si fermavano uno accanto all’altro non aprivamo i finestrini. Anche i maschi erano quieti, niente fischi né richiami, ci guardavamo, al massimo qualche saluto con la mano e poi via», ricorda Lise, una delle “ragazza atomiche” ancora vive.

Oltre le barriere, le garitte degli Mp, i poliziotti militari, le strade non asfaltate e abbandonate al fango invernale e al polverone estivo, le donne facevano un po’ di addestramento davanti a macchine da scrivere, batterie di telefoni, saldatrici, macchinari mai visti, come quei quadranti di controllo per calutroni, gli spettrometri usati per separare gli isotopi dell’uranio.

Non più donne, ma file di automi in tuta sedute con le mani sulle manopole e l’ordine di azionarle se la lancetta avesse superato certi valori. Ogni vicina nella camerata, o di stanza per le privilegiate che trovavano sistemazione in case sempre rigorosamente femminili e sorvegliate da implacabili matrons, poteva, anzi, doveva essere una delatrice, perché la stessa punizione, la cacciata o peggio il carcere, colpiva sia la pettegola sia colei che non l’avesse denunciata.

Nessuna di loro aveva la più lontana idea di che cosa stessero facendo, oltre quella lettera battuta a macchina per il proprio boss, quel manometro osservato per otto ore al giorno, quel tubicino saldato sotto lo sguardo inquieto di un ingegnere nucleare. Il generale Groves, dopo la guerra, calcolò che forse due dozzine di persone in tutti gli Stati Uniti sapessero che “La Fabbrica”, ufficialmente destinata a produrre un misterioso «tubo in lega», aveva il compito di arricchire l’uranio e renderlo utilizzabile per la bomba. Neppure il vice presidente americano che le avrebbe sganciate, Harry Truman, era stato informato.

Le poche donne sposate con uno degli «addetti ai lavori», con gli scienziati, potevano vivere con marito e figli in baracchette prefabbricate, naturalmente con la stessa proibizione di fare domande al marito o divulgare alle amiche anche soltanto quale fosse la sua specializzazione scientifica. Il massimo dello svago, dopo la festa del bucato che trasformava la Zona 5 in coreografie al vento di biancheria intima appesa ad asciugare, era la gita domenicale a Clinton, dove erano esplosi drugstore, modiste, parrucchieri, cinema, pasticcerie per approfittare di quei settantamila piovuti in poche settimane su paesini di tremila abitanti. «Persino andare in chiesa è uno svago», sospira Virginia in una delle poche lettere alla madre passata al vaglio dalla censura.

Ma oltre lo spirito, anche la natura conosce le proprie estasi, e neppure la “matrona” più attenta, o il poliziotto più occhiuto, potevano impedire che qualche ragazza riuscisse a raggiungere il ragazzo incontrato un giorno nelle mense. La «fraternizzazione » non era proibita ma temuta, perché nel vortice degli ormoni qualche spezzone di informazione poteva sfuggire. La reazione a catena fra tanti ragazzi e tante ragazze ventenni era inevitabile, al punto da indurre un gruppo di indignati pastori e cappellani a denunciare al colonnello comandante «il crescente numero di cattive ragazze che danno scandalo con il loro comportamento». Una petizione alla quale il colonnello rispose astutamente con un «benissimo, Padri, fate una ricerca presso i maschi per sapere quali siano le cattive ragazze ».

Prevedibilmente la ricerca non produsse alcun esito. Neppure quando Trinity esplose nella notte di Alamogordo, segnalando che la teoria era diventata realtà, e quando Hiroshima prima e Nagasaki poi furono annientate da Little Boy e da Fat Man, alle ragazze della bomba fu permesso di sapere. Soltanto all’annuncio della resa giapponese fu loro detto che avevano contributo alla vittoria finale e che le immagini sconvolgenti che presto avrebbero visto arrivare dalle due città erano anche frutto della loro fatica.

Celia Klemski lasciò la sua baracca un mese dopo Nagasaki, in settembre. Aveva ventun’anni. Le sue scarpe bianche erano ancora immacolate.

La Repubblica - 8 giugno 2014